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Scoperto un 'battito geologico' sotto l’Afar: l’Africa che si apre verso un nuovo oceano

Immaginate di osservare la Terra come un enorme orologio, non solo le sue lancette, i continenti, si muovono lentamente, ma anche il suo “meccanismo interno” batte a ritmo costante. È proprio questa suggestiva metafora che ci offre oggi una scoperta rivoluzionaria sul cuore caldo del nostro pianeta: sotto la regione dell’Afar, in Etiopia, il mantello terrestre non riposa immobile, ma pulsa con regolarità, un battito geologico capace di spingere e sollevare la crosta soprastante fino a indebolirla e favorirne la frattura.

Per comprendere l’importanza di questa ricerca, torniamo ai pionieri della tettonica a placche: già all’inizio del Novecento Alfred Wegener ipotizzava che i continenti fossero “zattere” in lento movimento, ma soltanto negli anni Sessanta la comunità scientifica raccolse prove decisive. Da allora, l’Africa orientale è diventata il laboratorio naturale della frammentazione continentale: il Rift Africano, un sistema di fratture lungo migliaia di chilometri, racconta oggi la genesi di un oceano futuro. Finora, però, si considerava il mantello sottostante come un serbatoio fondamentalmente omogeneo, capace di alimentare il vulcanismo ma privo di veri e propri “sussulti” ritmici.

L'Africa si sta spezzando

 

Lo studio internazionale appena pubblicato ha invece analizzato oltre 130 campioni di lava prelevati nei vulcani più recenti dell’Afar e del Main Ethiopian Rift, mettendo in luce un sorprendente “codice a barre” chimico. In pratica, le lava mostrano bande ripetute di elementi e isotopi che indicano risalite ritmiche di materiale fuso dal mantello profondo, a intervalli regolari. È come se, sotto la crosta, un mantello semicreoso spingesse saltuariamente, creando ondate di magma che si accumulano nelle camere magmatiche e, a lungo andare, contribuiscono a lacerare la roccia rigida di superficie.

Ma da cosa dipendono questi battiti? I ricercatori osservano che dove la crosta è più sottile e il rifting procede speditamente, le pulsazioni si fanno più intense e concentrate: qui il mantello trova meno “resistenza” e il magma risale con maggiore energia. Al contrario, nelle zone a crosta più spessa, lo stesso fenomeno appare in parte attenuato, come se la placca superiore funzionasse da cuscinetto smorzante. Insomma, il “cuore” della Terra dialoga strettamente con la sua “pellicola” esterna, in un costante scambio di forze che determina attività vulcanica, terremoti e, su scale temporali lunghissime, la creazione di nuove porzioni di crosta oceanica.

L’impatto di questa scoperta va ben oltre i confini etiopi. Da un lato, offre uno strumento in più per prevedere la variabilità dell’attività vulcanica e sismica nelle zone di rifting attivo, con ricadute importanti per la mitigazione del rischio geologico. Dall’altro, nel campo dell’astrobiologia, ci spinge a riflettere su quanto i pianeti rocciosi – come Marte o le lune di Giove e Saturno – possano mostrare interni pulsanti, influenzando il loro potenziale vulcanico e, in ultima analisi, la capacità di ospitare ambienti abitabili.

Tornando al nostro orologio terrestre, questa ricerca ci ricorda che la storia della Terra non è una semplice narrazione “in una sola direzione”, ma un dialogo continuo tra forze profonde e manifestazioni in superficie. Nei prossimi anni, grazie a nuove campagne di rilevamento geofisico e all’analisi sempre più dettagliata delle rocce, potremo ascoltare più nitidamente quel battito, cogliendo i segreti del passato e proiettandoci verso il futuro evolutivo del nostro pianeta.

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